di Valentina Ciani – Il presente lavoro si apre con l’analisi diretta di alcune dinamiche osservate in soggetti definiti, in questo contesto, come fonti disturbate. Si tratta di individui che, pur non appartenendo formalmente ad alcun servizio di intelligence, agiscono come se lo fossero, assumendo atteggiamenti, linguaggi, posture e abitudini proprie del mondo operativo, ma in modo distorto e auto-referenziale.
Le dinamiche descritte emergono da un’attenta osservazione condotta in contesti reali, inclusi ambienti istituzionali e para-istituzionali, caratterizzati talvolta da zone grigie, scarsa supervisione o ambiguità operativa. L’analisi si è sviluppata in modo progressivo, a contatto diretto con tali contesti, attraverso la rilevazione di pattern comportamentali ricorrenti, con particolare attenzione agli effetti relazionali e identitari che tali soggetti producono nell’ambiente circostante.
La fonte disturbata: comportamenti nascosti e costruzione identitaria deviata
Tali soggetti, spesso impiegati in contesti di sicurezza privata o in ambiti tecnici legati alla cybersecurity, sviluppano una percezione alterata del proprio ruolo. Compiti puramente esecutivi – come il controllo accessi, la vigilanza, l’installazione di impianti o la protezione fisica passiva – vengono reinterpretati da loro come missioni coperte, azioni “di facciata” che nasconderebbero un ruolo superiore, non dichiarato, ma “confermato” (nella loro narrazione) da segnali invisibili o da presunte attenzioni esterne.
In questo quadro, emergono comportamenti coerenti con disturbi della personalità a componente narcisistica, paranoide o istrionica. La fonte disturbata tende a: spiare costantemente l’ambiente circostante, come se fosse sempre in allerta operativa; interpretare segnali casuali (sguardi, ritardi, parole comuni) come codici, test o prove di reclutamento; attribuirsi capacità analitiche o incarichi mai ricevuti, a volte dichiarando che “non può parlare di ciò che fa”.
Uno degli elementi più allarmanti osservati nel corso dell’indagine è l’uso strumentale della posizione lavorativa o dell’apparenza “di autorità” per avvicinare persone considerate più deboli o emotivamente esposte. In particolare, si tratta spesso di donne, colleghi più giovani o soggetti insicuri, a cui il disturbato si presenta come guida, riferimento, figura di protezione. Ma dietro questa dinamica, apparentemente “di supporto”, si nasconde una forma sottile e persistente di controllo, che può sfociare in: ricatto emozionale, manipolazione affettiva o sessuale, gaslighting o isolamento progressivo della vittima.
Tali soggetti non agiscono sempre con violenza evidente, ma creano intorno a sé una rete di ambiguità, doppi livelli e frasi criptiche che alimentano la confusione e rafforzano la propria centralità. Il loro obiettivo non è la missione (che non esiste), ma la messa in scena della missione, attraverso la quale danno senso alla propria identità.
In alcuni casi, il soggetto arriva addirittura a credere che il proprio impiego regolare – ad esempio come operatore della sicurezza, tecnico informatico o addetto al controllo – sia soltanto una copertura formale. La convinzione è che esista un livello più profondo della realtà, in cui qualcuno “li sta osservando”, “sta testando la loro fedeltà” o li sta gradualmente avvicinando a un incarico reale. Tale convinzione, spesso non esplicitata ma solo allusa con frasi ambigue (“ci sono cose che non si possono dire”, “sto facendo solo il necessario finché non mi richiamano”), rafforza il senso di eccezionalità del soggetto, alimentandone l’isolamento e la percezione distorta del contesto.
Questo meccanismo di proiezione paranoide, in cui la realtà viene letta come un codice nascosto, non solo produce disagio tra colleghi e conoscenti, ma può anche generare forme di autosuggestione operativa, in cui il soggetto agisce davvero come se fosse parte di un apparato segreto. In questi casi, si moltiplicano comportamenti come: mappature ossessive di ambienti pubblici, attenzione eccessiva a dettagli insignificanti, uso di terminologia tecnica decontestualizzata, adozione di posture fisiche rigide o ritualizzate.
A livello simbolico, la loro intera esistenza diventa una simulazione identitaria, in cui il lavoro visibile è solo un velo, e il vero “io” vive in un mondo parallelo fatto di segnali invisibili, prove da superare, e nemici da intercettare.
Il contagio comportamentale: imitazione, gruppo e rischio sistemico
Una delle osservazioni più rilevanti emerse dall’analisi di campo riguarda la propagazione del comportamento disturbato. Non tutti i soggetti osservati presentano tratti psicopatologici evidenti: al contrario, molti mostrano un funzionamento apparentemente equilibrato, una competenza tecnica adeguata e una certa disciplina comportamentale. Tuttavia, il contatto prolungato con una fonte disturbata carismatica può generare una progressiva normalizzazione di linguaggi, posture e convinzioni devianti.
Questo processo, definibile come contagio comportamentale, si sviluppa soprattutto nei gruppi informali o para-istituzionali, dove mancano gerarchie chiare e filtri di responsabilità. Il soggetto disturbato, che interpreta sé stesso come figura centrale, finisce per creare attorno a sé un gruppo di “adepti” – non necessariamente consapevoli – che replicano dinamiche di controllo, silenzio, sottomissione o presunta operatività clandestina.
Un dato particolarmente preoccupante emerso dall’osservazione riguarda l’uso improprio del nome di istituzioni reali. In alcuni casi, i soggetti coinvolti fanno riferimento – in modo ambiguo o allusivo – a enti realmente esistenti (servizi di intelligence, corpi speciali, organismi di sicurezza nazionale), spacciando il proprio gruppo per un’estensione non ufficiale, “coperta”, o in fase di valutazione da parte di questi apparati. Tale narrazione, sebbene fantasiosa, viene mantenuta in modo coerente e talvolta ossessivo, generando un ambiente di falsa legittimazione che può ingannare soggetti fragili o inesperti.
In molti casi osservati, le persone coinvolte nel gruppo creato dalla fonte disturbata presentavano fragilità preesistenti ben riconoscibili. Alcuni avevano vissuto situazioni familiari problematiche, ambienti instabili o relazioni assenti. Altri affrontavano difficoltà economiche persistenti, che li portavano a cercare una posizione di forza, di riscatto o di stabilità. Non pochi mostravano una profonda mancanza di autostima, e nel rapporto con la fonte disturbata trovavano finalmente una narrazione che li faceva sentire importanti, scelti, “visti” in un contesto dove normalmente si sentivano invisibili.
È in questo terreno emotivamente vulnerabile che la fonte disturbata agisce in modo più efficace: offrendo un’identità pronta all’uso, un ruolo simbolico (“sei parte di qualcosa di più grande”), e un senso di appartenenza costruito su finzioni operative. L’effetto non è immediato, ma graduale e coinvolgente, come un processo di iniziazione che distorce la percezione di sé e degli altri.
In molti casi, il soggetto disturbato cerca deliberatamente di estendere la propria influenza anche al di fuori dei contesti istituzionali. Utilizza ambienti informali, social network, corsi civili, contatti paralleli o spazi ambigui per mantenere il controllo sulle persone che considera parte del proprio sistema. L’obiettivo resta lo stesso: confermare la propria centralità, monitorare il comportamento altrui e rafforzare la narrazione di essere parte di un apparato invisibile ma operativo.
Le vittime
La fonte disturbata, nel tempo, manipola anche altri operatori di sicurezza o soggetti fragili nel suo stesso ambiente professionale.
Alcuni vengono coinvolti inconsapevolmente in comportamenti di pressione o controllo verso la vittima, creando così una rete di condizionamento secondario. La vittima, già fragile, si ritrova quindi intrappolata in un contesto in cui anche altre figure – apparentemente neutrali – sembrano agire in modo ambiguo o incoerente, peggiorando la sua confusione e vulnerabilità. La conseguenza può essere devastante: perdita di fiducia in sé, crisi emotiva, isolamento, dipendenza psicologica o – nei casi peggiori – collaborazione forzata con la fonte, per paura o senso di dovere distorto.
La vittima, inizialmente, si sente utile. Le viene fatto credere di essere diventata una figura “leale”, “necessaria”, perché vicina a una persona che afferma di “lavorare per l’intelligence”.
In questa fase, spesso si verificano manipolazioni emotive sottili: la vittima inizia a porsi domande identitarie profonde. “Chi sono io, se questa persona misteriosa e potente mi sceglie?”
Il rischio principale è quello di una perdita dell’identità personale: la vittima si misura con il mito costruito dalla fonte, anche se questa è in realtà una figura fallita o marginale. La fonte, per rendere la vittima reclutabile, promette illusioni: vite migliori, denaro, viaggi, accesso a contesti di potere. Ma il vero scopo è destabilizzarla e manipolarla.
Quando la vittima non riceve quanto le era stato promesso, o quando si rende conto dell’ambiguità della relazione, entra in crisi. La fonte, presente in modo forte e assiduo anche solo per brevi periodi, riesce a incidere profondamente. La vittima si sente confusa, disperata, non più autonoma. Spesso si tratta di persone già in condizioni di fragilità economica o affettiva.
La fonte non accusa mai sé stessa, non assume responsabilità: esercita controllo ma senza averne alcuna legittimazione reale o istituzionale.È proprio in questo contesto che si nota l’uso distorto delle tecniche di OSINT e HUMINT: la fonte avvia ricerche sulle vittime, su dove abitano, cosa fanno, chi frequentano.
Utilizza frasi indirette, provocazioni, insinuazioni per destabilizzarle emotivamente. Questo linguaggio di vera elicitation viene amplificato dalle ricerche parallele condotte dalla fonte stessa, talvolta condivise da lui stesso con altri soggetti già manipolati e dunque disposti a seguirlo e supportarne l’azione.
La vittima, non essendo formata su queste tecniche, non possiede strumenti di difesa consapevoli: non riconosce i segnali, non comprende l’intento manipolativo, e dunque non è in grado di difendersi da una vera elicitation mascherata da conversazione comune. Questo squilibrio informativo e psicologico rende il danno ancora più subdolo e profondo.
Le vittime ambientali: esposizione passiva e danno sistemico
Non tutte le vittime sono manipolate direttamente. In molti contesti – sia istituzionali che esterni – la presenza della fonte disturbata genera una distorsione ambientale tale da coinvolgere anche soggetti non appartenenti alla sua “cerchia”.
Chi non si piega alla narrazione della fonte, o non viene considerato utile alla sua agenda, può diventare oggetto di delegittimazione. Viene etichettato come “non adatto”, “poco allineato”, “in opposizione” – anche se non ha fatto nulla di ostile.
La fonte tende infatti a infangare figure potenzialmente valide, parlando male di loro o insinuando che non siano affidabili.
Questo non è un effetto casuale: è parte del suo sistema di controllo. In parallelo, chi è entrato nella cerchia della fonte tende a comportarsi in modo compiacente, imitando lo stile comunicativo, giustificandone i comportamenti e talvolta attaccando chi non lo fa. Si sviluppa così un ambiente ambivalente, teso, opprimente, in cui il personale non manipolato vive un costante senso di disallineamento, una frustrazione crescente, e talvolta conseguenze professionali indirette (isolamento, sfiducia, demotivazione).
Anche quando l’ambiente è formalmente strutturato (come in un’istituzione), questa dinamica non scompare: si mimetizza tra i ruoli, sfrutta le ambiguità interne e i silenzi protettivi. La pressione non è esplicita, ma si manifesta attraverso micro-esclusioni, commenti ambigui, mancanza di riconoscimento o atteggiamenti passivo-aggressivi da parte del gruppo “agganciato”.
In questo scenario, l’operatore lucido diventa una vittima ambientale, costretto a convivere con un disequilibrio pericoloso: vede chiaramente ciò che accade, ma non può intervenire né opporsi, pena l’isolamento o la svalutazione.
In molti casi, chi riconosce chiaramente la distorsione ambientale creata dalla fonte disturbata sceglie di andarsene, anche se ricopre ruoli di rilievo o ha competenze preziose. Il clima di ambiguità, la compiacenza diffusa e l’impossibilità di agire apertamente spingono le personalità più lucide e integerrime a sottrarsi volontariamente. Si tratta di una perdita silenziosa ma grave: figure professionali capaci, con esperienza e spirito critico, si allontanano per evitare il logoramento o la cooptazione indiretta. In tal modo, l’ambiente si svuota progressivamente di soggetti equilibrati e motivati, lasciando spazio a dinamiche sempre più deviate e autoreferenziali.
L’agente manipolatore
L’agente manipolatore e la perdita di controllo
Quando l’agente manipolatore non riesce a ottenere il controllo completo sulla vittima – o, più esplicitamente, sul target – si attiva una nuova dinamica ancora più pericolosa.
L’impossibilità di manipolare il target genera nella fonte disturbata uno stato crescente di frustrazione, che può evolvere in veri e propri deliri persecutori. In questa fase, l’agente manipolatore, pur mantenendo un’apparente lucidità e distanza, inizia a colpire l’obiettivo con modalità subdole, spesso tentando di infangarne la reputazione.
Tra i comportamenti osservati, rientrano:
– l’uso di insinuazioni ambigue in contesti professionali o sociali;
– la diffusione controllata di informazioni parziali o decontestualizzate;
– e, in alcuni casi, la richiesta esplicita ad altri soggetti manipolati di compiere azioni indirette, allo scopo di mettere sotto pressione o isolare il target.
Si assiste quindi a una trasformazione del target da risorsa potenziale a nemico psicologico, vissuto come una minaccia alla narrazione grandiosa costruita dalla fonte. Questo passaggio segna una fase cruciale della spirale manipolativa: la perdita del controllo genera aggressività coperta, strategie delegittimanti, e un senso persecutorio che si autoalimenta.
La fonte disturbata come test: effetti sistemici e rischio di contaminazione
La fonte usata come test
In alcune situazioni, la fonte disturbata non viene più gestita per finalità informative, ma per finalità sperimentali: si osservano le sue interazioni con terzi per testare reazioni, monitorare vulnerabilità, o misurare la resilienza di nuovi soggetti.
Diventa, di fatto, un fattore di stress artificiale, utile a valutare chi resta saldo e chi cede.
Tale strategia, se non dichiarata, è altamente controversa: presuppone l’accettazione di danni collaterali e strumentalizza un soggetto già fragile, esponendo anche altri a effetti psicologici duraturi.
Il rischio di allontanamento dei profili validi
La presenza non neutralizzata della fonte disturbata – soprattutto quando attiva e sostenuta – genera sfiducia, ambiguità e sensazioni di pericolo costante. In questo contesto, soggetti realmente validi e motivati, dotati di spirito critico o sensibilità, potrebbero allontanarsi spontaneamente, percependo un ambiente instabile o pericoloso.
Così, l’esperimento compromette proprio ciò che dovrebbe proteggere: la selezione di profili sani, lucidi, etici.
Dinamiche di leadership deviata
Non è raro che la fonte disturbata, carismatica o manipolativa, assuma un ruolo di leadership informale, soprattutto in ambienti giovani o non ben regolati. In questo caso, trascina con sé soggetti fragili, imponendo dinamiche di gruppo basate su paura, sudditanza, lealtà emotiva. Se la supervisione è scarsa, la fonte diventa un polo di aggregazione tossica, in grado di influenzare gerarchie reali e creare microclimi devianti.
Danno operativo da fonte non neutralizzata
In contesti dove la fonte disturbata è stata inizialmente impiegata come risorsa informativa e poi lasciata libera di agire, l’intero assetto operativo può diventare instabile. Quando un soggetto manipolativo, già noto per comportamenti ambigui, viene tollerato all’interno di un ambiente strutturato, tende a creare disordine non attraverso attacchi diretti, ma interferendo nelle dinamiche quotidiane, destabilizzando il gruppo, disorientando le figure di riferimento e alimentando micro-conflitti costanti.
La fonte, convinta di essere ancora legittimata da un passato contatto con contesti informativi, agisce in modo autonomo, accrescendo la propria influenza e generando una cerchia compiacente. Chi ha responsabilità di coordinamento si trova spesso impossibilitato a mantenere equilibrio, complice l’assenza di una presa di posizione chiara da parte dell’organizzazione.
Le conseguenze possono essere gravi e ripetute: soggetti professionali, anche validi e preparati, rinunciano all’incarico, logorati da un sistema che non tutela la chiarezza dei ruoli né il contenimento dei fattori disturbanti. Quando ciò accade più volte, il segnale è evidente: non è la singola persona a fallire, ma l’organizzazione che ha lasciato proliferare una distorsione senza strumenti di protezione adeguati.
Conclusioni
Quando la fonte non risponde più
Una fonte disturbata, se attivata per finalità operative e lasciata successivamente senza supervisione, può trasformarsi in un soggetto imprevedibile e potenzialmente dannoso. Quando tale figura agisce in autonomia, mantenendo la convinzione di essere utile o osservata, il manipolatore originario non è più nella posizione di intervenire direttamente. Un riavvicinamento rischierebbe di innescare reazioni persecutorie, interpretazioni deliranti o ulteriori disfunzioni.
In questi casi, l’approccio più efficace è rappresentato dall’impiego di un operatore terzo, esperto in dinamiche HUMINT, che non abbia legami emotivi né operativi con la fase iniziale. Tale figura potrà:
– osservare l’evoluzione comportamentale della fonte,
– raccogliere segnali utili alla valutazione del rischio,
– proporre, se necessario, forme di sorveglianza discreta o contenimento relazionale.
Questa forma di intervento non ha solo una valenza di prevenzione psicologica. Ha anche l’obiettivo di contenere l’uso improprio di riferimenti a istituzioni di sicurezza o intelligence, che la fonte potrebbe invocare per giustificare il proprio comportamento o attirare nuovi soggetti vulnerabili. In questi casi, il rischio reputazionale è elevato: l’assenza di una presa di posizione può essere letta come legittimazione implicita, generando confusione, emulazione o timore.
Quando la fonte non è più gestibile in modo diretto, è solo tramite la distanza lucida e la lettura indiretta che se ne può contenere l’impatto. Né abbandonata, né riattivata: solo compresa e sorvegliata, da chi non ha partecipato al suo innesco.
Il pericolo silenzioso della fonte disturbata legittimata
Una fonte disturbata non può essere considerata innocua solo perché “non è più utile”. Se ha ricevuto attenzione, legittimazione o anche solo promesse implicite, ha costruito una narrazione. E quando questa narrazione si radica, può diventare un pericolo sistemico. Chi ha impiegato la fonte, magari solo per ottenere vantaggi temporanei, spesso la abbandona una volta esaurita la sua funzione. Ma non ne gestisce le conseguenze. Eppure, la fonte non scompare: resta nell’ambiente, convinta di essere ancora centrale, convinta di poter continuare ad agire, manipolare, influenzare. Il contesto, intanto, si deteriora lentamente. Gli operatori validi se ne vanno, altri rimangono incastrati in dinamiche malate, e chi osserva comincia a perdere fiducia nella struttura stessa.
Una fonte disturbata, lasciata libera in un ambiente operativo o istituzionale, non è solo un soggetto disfunzionale: è una minaccia a rilascio lento. Il danno che provoca non si misura solo in termini di informazioni false o comportamenti devianti, ma nel logoramento progressivo delle risorse umane, nella frustrazione dei referenti, e nella perdita di credibilità dell’intero sistema.
Il vero pericolo non è solo ciò che dice, ma ciò che crea intorno a sé.
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Valentina Ciani è studentessa in psicologia con particolare interesse per le dinamiche relazionali e comportamentali in contesti complessi e ad alto rischio relazionale. Questo lavoro nasce da osservazioni sul campo, maturate nel tempo, che ha voluto trasformare in una riflessione approfondita.