di Giovanni Ramunno
Il rapido ritmo del cambiamento tecnologico e geopolitico, soprattutto dopo i recenti sviluppi delle crisi ucraina e siriana, introduce per il Vecchio continente nuove potenziali minacce che devono essere attentamente monitorate e valutate. A complicare questo quadro di situazione si aggiunge la necessità dell’Amministrazione statunitense (che considera nei fatti la Russia una potenza regionale alla stregua di Turchia e Pakistan), di recuperare risorse finanziarie per fronteggiare la minaccia asiatica sempre più attuale, mantenendo il principio solidaristico con i partner europei attraverso la permanenza nell’Alleanza atlantica, ma esigendo da questi un contributo che è al contempo politico, in termini di volontà di difesa delle propria libertà, e finanziario nella ricerca e negli investimenti per la Difesa.
La prospettiva di una presenza americana convinta della maggior età europea, in termini di difesa, comporterà un aumento degli oneri destinati alla salvaguardia dei nostri interessi politici, economici e strategici vitali. L’Europa dovrà cosi dimostrare di saper gestire l’hard power oltre che il soft power per garantire la politica, l’economia e il commercio internazionale e il trasferimento tecnologico.
Abbiamo tutti un’idea molto chiara della sicurezza come condizione in cui gli stati ritengono che non vi sia alcun pericolo di attacco militare, pressione politica o coercizione economica e la domanda su come potrebbe il Cremlino testare la difesa collettiva della NATO è un elemento essenziale di informazione per chi volesse valutare, in una prospettiva di medio termine, se l’obiettivo principale della sicurezza nazionale, nostra e dei nostri partner europei, sia ancora garantito.
Al quesito su un plausibile attacco russo alla Nato ha cercato di rispondere con grande perizia tecnica Joe Morley-Davies, anche grazie dagli autorevoli pareri del tenente generale (in pensione) Sir Rob Fry e del professor Mark Galeotti , con un articolo pubblicato il 3 gennaio 2025 dal Royal United Services Institute (RUSI), il principale think tank sulla difesa e la sicurezza del Regno Unito.
Condivido senza riserve le domande di ricerca nonché l’approccio metodologico utilizzato dall’autore; peraltro, ho apprezzato l’ampio spazio dedicato al dominio cognitivo dove le sfide alla sicurezza hanno dimostrato una natura invasiva, intrusiva e invisibile e idonea a sfruttare le complesse sfaccettature della cognizione, per interrompere, minare, influenzare o modificare le decisioni umane. Paradigmatica l’osservazione del professor Galeotti quando nota che “il risultato è politico, non operativo” e che “l’ironia è che l’impatto psicologico è maggiore di quello fisico”, che potrebbe anche essere un primo indizio su modalità e soprattutto tempi della manovra strategica russa.
Nutro, invece, alcune riserve sul fatto che la quinta domanda di ricerca non sia mai menzionata nel testo dell’articolo, quando invece tutta l’analisi è basata su una variabile temporale addirittura irreversibile. Una direzione e una sequenza dei tempi, che si trasforma in un rigido sistema di subordinazioni logiche, realismo fattuale, che in latino potrebbe essere stata espressa con un ablativo assoluto. Ma in questo caso, la sintassi latina non ammetterebbe questo uso del caso perché la proposizione principale e quella dipendente hanno lo stesso soggetto: la Russia che stà già conducendo operazioni ibride e una “guerra dei significati” per controllare le caratteristiche psicologiche e il comportamento degli esseri umani e delle comunità e plasmare i nostri sistemi valoriali.
Sul fatto, il Consiglio dell’UE si è espresso inequivocabilmente affermando che: “La Federazione Russa ha intrapreso una campagna sistematica e internazionale di disinformazione, manipolazione delle informazioni e distorsione dei fatti al fine di migliorare la sua strategia di destabilizzazione dei paesi confinanti”.
I russi, infatti, hanno compreso che il flusso e l’evoluzione delle convinzioni e delle intenzioni della popolazione sono fondamentali per la resilienza e la stabilità dei nostri Paesi, che dipendono dalla salute, dalla forza e dalla vitalità delle nostre democrazie e hanno già definito da tempo il centro di gravità delle loro operazioni: l’opinione pubblica.
Sfugge probabilmente all’autore che, invece di concentrarsi sulla struttura della storia, si sarebbe dovuto chiedere, in un approccio più olistico, come gli esseri umani danno un senso alle storie e come gli esseri umani usano le storie come strumenti di creazione di senso.
Le relazioni infatti non sono rigidamente sequenziali né si sviluppano in un vuoto comunicativo e culturale, ma si sviluppano in un intreccio, una tessitura che dal punto di vista narrativo sarebbe definito trama (emplotment).
Le attività nel dominio cognitivo si esplicano attraverso narrazioni che sono processi di “costruzione continua”, situata in un contesto di relazioni sociali che porta la storia individuale in un “mondo più ampio fatto di istituzioni, economia, popolazione”. In questa prospettiva, narrazioni di storia e identità rendono possibili trasformazioni sociali e politiche.
L’articolo attribuisce ad un vago “fallimento dell’immaginazione” la mancata previsione di fatti che hanno influenzato il nostro concetto di sicurezza.
Forse, l’indagine avrebbe dovuto adottare un approccio focalizzato alle trasformazioni dei contesti politici e sociali e alle “esperienze generative”, indotte dall’esterno, che stanno interferendo nella costruzione dell’identità individuale e collettiva e condizionando le nostre opinioni pubbliche, piuttosto che limitarsi a una registrazione, questa sì poco creativa e immaginativa, di una sequenza lineare e temporale di storie individuali e collettive.
In merito al quando il Cremlino potrebbe testare la difesa collettiva della NATO, possiamo dire che la minaccia sia ormai una realtà; per le conseguenze cinetiche qualsiasi stratega affermerebbe che sarebbe un intervento sinergico in tutti i domini.